Persuasori Occulti…ma non troppo.

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Correva l’anno 1957 quando Vance Packard, insegnante di giornalismo all’Università di New York, rivelava agli americani e al mondo quanto fosse stretta la sinergia tra analisi e pubblicità, denunciando allo stesso tempo la sua estrema pericolosità. I persuasori occulti, questo il titolo del suo libro, dei quali parlava Packard sono in fondo gli stessi di oggi, soltanto più preparati, con più mezzi a disposizione e molto più efficienti nell’operare anche in quella zona grigia della persuasione che espande i propri fini a scopi non del tutto leciti operando all’ombra di organizzazioni collegate in maniera più o meno visibile ai centri di potere. L’aspetto preso in esame da questo breve articolo si limita alla parte più evidente della questione, quella che tutti potremmo benissimo vedere e dalla quale potremmo difenderci a patto di prestare più attenzione a quanto ci accade intorno. Tutti sanno che la costante e continua esaltazione di un determinato prodotto spinge prima o poi al desiderio di acquistarlo, è una regola elementare, la stessa per la quale molto spesso ci si ritrova ad osservare tanti negozi che trattano la stessa merce posti sulla stessa strada, la stessa che spiega la nascita dei quartieri commerciali.

Ma come funziona esattamente questo fenomeno?

Le strutture arcaiche del nostro cervello vengono messe in moto sia da particolari stimoli (percezioni incoscienti), che da stimoli ripetuti. Nel caso esposto all’inizio, ovvero il messaggio pubblicitario sia scritto che orale, viene usata la tecnica della ripetizione al fine di influenzare il nostro comportamento; si tratta di una tecnica molto nota in campo pubblicitario e usata molto spesso anche nella politica, soprattutto in quei paesi a regime totalitario, nei quali si riscontra il controllo totale dei mass media, oggi purtroppo abbastanza evidenti anche nei paesi considerati democratici. I fattori essenziali sono tre: uno slogan efficace, la frequenza nella ripetizione e la scelta del momento giusto. La ripetizione dello slogan, parte vitale della tecnica di persuasione, stimola le strutture cosiddette “affettivo automatiche” poste ad un livello inferiore dell’encefalo, ovvero in una parte dove la critica è quasi del tutto assente.

Il messaggio deve ovviamente contenere una carica affettiva, ma in cosa consiste?

Credit foto: worldcrunch.com

Credit foto: worldcrunch.com

Proviamo a fare alcuni esempi: se ripeto in maniera martellante che una tale marca di liquore è destinata a ci se ne intende il consumatore pian piano identificherà quella marca con un sentimento di prestigio e la acquisterà perché questo lo farà sentire più importante; lo stesso accade se sponsorizzo un dopobarba che è l’unico a farci sentire maschi, oppure un profumo che farà venire fuori per incanto la femminilità. In pratica, nella struttura del cervello prima indicata, il senso della critica non funziona, questo ci fa dimenticare che si tratta di una trovata pubblicitaria. Questa tecnica, paradossalmente, ha però un nemico contenuto proprio all’interno della sua struttura, il momento giusto.

Questo accade perché quelle strutture affettive del nostro cervello, pur mancando di critica, sono portate all’assuefazione, all’abitudine, l’unica cosa in grado di annullare gli effetti delle cariche affettive, siano esse piacevoli che spiacevoli. Per questo motivo scegliere il momento giusto è addirittura vitale per i persuasori occulti, ma trovare il momento giusto per iniziare ad osservare le cose da una diversa prospettiva è ormai vitale anche per noi, per evitare che il nostro futuro, le nostre abitudini e le nostre preferenze ritornino finalmente ad essere il frutto di una consapevole scelta.

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Remote Mind Control

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George Estabrooks, laureato ad Harvard, presidente del Dipartimento di Psicologia presso la Colgate University, viene ricordato come una vera e propria autorità in materia di ipnosi durante il secondo conflitto mondiale. Proprio all’inizio delle attività belliche, Estabrooks scrisse al Dipartimento della Guerra, descrivendo in maniera molto convincente i possibili usi dell’ipnosi, descrizione che poi riprese in maniera ancor più esaustiva nel 1957, dando alle stampe il libro “Ipnosi”, pubblicato a New York dalla EP Dutton & Co. I termini della sua collaborazione con l’FBI e l’Intelligence rimarranno per sempre un mistero; non sapremo mai fino a che punto si spinsero le ricerche e gli esperimenti, dato che la vera storia di questa collaborazione, contenuta in un diario che Estabrooks aggiornava quotidianamente, venne data alle fiamme. Andarono così distrutte per sempre preziose informazioni che riguardavano il lavoro svolto dal 1940 al 1945 e negli anni successivi; l’unica informazione trapelata riguarda i cosiddetti “Hypno-programmati”, soggetti dalla personalità multipla (indotta ipnoticamente), che assolvevano al compito di semplici corrieri, anche se tale funzione non è mai stata approfondita. In ogni caso la seconda guerra mondiale, tra i suoi tanti campi di battaglia, ebbe anche quello che riguardava il controllo mentale, uno scontro che mise in gioco i maggiori esperti nel campo della psicologia e della farmacologia.

Brain

Da entrambi i lati si moltiplicarono gli sforzi per produrre una “droga della verità” da usare sui prigionieri; venne creato un team di esperti tra i quali figuravano i nomi del dottor Winifred Overhulser, dottor Edward Strecker, Harry J. Anslinger e George White. Il loro compito era quello di modificare la percezione e il comportamento umano attraverso mezzi chimici, tra le risorse a disposizione scopolamina, peyote, barbiturici, mescalina e marijuana. Contemporaneamente, i medici nazisti, a Dachau, conducevano famigerati esperimenti con la mescalina come mezzo per eliminare la volontà di resistenza delle vittime; ebrei, slavi, zingari, e molti altri vennero “trattati” con il farmaco. I risultati di questi test vennero messi a disposizione negli Stati Uniti dopo la guerra (Operazione Paperclip), e allo stesso tempo migliaia di ricercatori appartenenti all’Intelligence tedesca passarono a quella statunitense. Nel 1947, la Marina Americana, condusse la prima sperimentazione nota di controllo mentale, cosa avvenne in segreto e in precedenza non ci è dato da sapere; le “ricerche” si protrassero fino al 1951, coperte da una azione di propaganda tesa a diffondere la voce che il blocco comunista lavorando ad un metodo per plasmare la volontà. Questo terribile pericolo autorizzava di fatto le sperimentazioni americane, facendole passare come un giusto e doveroso tentativo di contrastare il pericolo sovietico.

Promotore principale di questo scenario fu Edward Hunter, un agente operativo della CIA che lavorava sotto copertura come giornalista. Il programma di controllo mentale venne in seguito trasferito presso l’ufficio per la sicurezza; era il 1953 e il progetto MKULTRA, così venne ribattezzato, iniziò ad inglobare una fitta rete di scienziati, centri, università, laboratori; tutto questo fino a quando, nel 1962, non venne nuovamente trasferito presso l’Ufficio di Ricerca e Sviluppo.

Cosa si ricercava esattamente?

Tutto quello che aveva a che fare con l’ipnosi, il condizionamento, la deprivazione sensoriale, le droghe, la psicochirurgia, gli impianti celebrali. Qualcuno a questo punto potrebbe pensare che ci stiamo addentrando nel fantastico; in realtà la nostra tecnologia “vanta” già da tempo un dispositivo che opera seguendo proprio queste linee guida; si chiama “Stimoceiver” e venne inventato tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 dal neuro scienziato Jose “Bob” Delgado. Si tratta di un elettrodo di profondità in miniatura, in grado di ricevere e trasmettere segnali elettronici tramite onde radio in FM.

In tal modo, ad un operatore esterno, basterà stimolare correttamente lo Stimoceiver per avere un sorprendente grado di controllo sulle risposte del soggetto. Il progetto di Delgado andava ben oltre un semplice strumento di controllo singolo; l’intenzione del neuro scienziato era quella di produrre impianti celebrali di massa per quella che lui stesso definiva una “società psicocivilizzata”, un’idea alla quale credeva fermamente e che propagandava attraverso varie motivazioni filosofiche non del tutto convincenti. In ogni caso, i suoi esperimenti dimostrano in maniera inequivocabile che è possibile controllare la mente, e che tale scenario, sicuramente di origine terrestre, necessita ulteriori approfondimenti tanto quello di presumibile matrice aliena. Tra le altre cose, proprio tra gli appunti di Delgado, si fa riferimento a quella che lui definisce “visione colorata”, ottenuta attraverso la stimolazione di alcuni punti nell’amigdala e nell’ippocampo; si tratta chiaramente di una sorta di allucinazione controllata da un operatore esterno e relativa a scenari e figure “aliene” alla nostra realtà. Successivamente si provò ad attaccare l’impianto alla membrana timpanica; in tal modo l’orecchio diventa una sorta di micro telefono, una tecnologia molto utile per lo spionaggio ma che, allo stesso tempo, potrebbe in qualche modo giustificare le voci sentite dagli addotti.

Le esperienze di Delgado vennero poi riprese nei laboratori della Tulane University, dove Robert Heath impiantò ben 125 elettrodi nei soggetti sperimentali, scoprendo di riuscire a controllare la memoria dei pazienti, così come molte delle loro sensazioni.

Oggi, fino a che punto si sono spinte le ambizioni dei Controllori?

I dominatori invisibili

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Gli anni Cinquanta si avviano ormai al termine, i mass media sfornano giornalmente notizie inquietanti che parlano di misteriose presenze nei cieli d’America, e non solo; da quando, nel 1947, Kenneth Arnold è stato testimone di uno straordinario avvistamento, i dischi volanti sono ormai quasi quotidianamente su ogni testata giornalistica, insieme ai primi dubbi circa un complotto sotterraneo che implicherebbe il Governo. Realtà e fantasia si inseguono, vecchie paure risorgono dal loro letargo, ma allo stesso tempo, in luoghi diversi, lontano dai clamori dei titoli di testa, accade dell’altro, qualcosa di inquietante che colpisce inaspettatamente il quotidiano di persone assolutamente lontane dagli scenari appena descritti, uno sconvolgimento che segnerà indelebilmente la loro vita.

Credit foto: redicecreations.com

Credit foto: redicecreations.com

Jacqueline Mallay è una normalissima casalinga francese, felicemente sposata, vive in maniera assolutamente tranquilla dividendosi tra le esigenze familiari e qualche svago nel fine settimana. Una notte, altrettanto tranquilla e normale come tutti i suoi giorni, si svegliò di soprassalto gridando a squarciagola; in quello che non riusciva a collocare tra un sogno o una reale visione, avevo visto centinaia di piccole creature intente a scalare un grosso cumulo grigiastro posto al centro di una immensa pianura. La scena non era forse così terrorizzante da giustificare il brusco risveglio, ma il senso di profonda angoscia che gli trasmise la portò ad urlare di disperazione. Passò qualche minuto, il tempo di riprendersi, di osservarsi intorno e sincerarsi che nulla fosse cambiato; il marito dormiva tranquillamente e dalla stanzetta delle sue due bambine riusciva a sentire la più piccola che rideva nel sonno; era stato soltanto un brutto sogno, con questo pensiero Jacqueline ripose la testa sul cuscino. Per quanto cercasse di rilassarsi non ci riuscì affatto; rimase per circa un’ora in preda ad uno strano stato di dormiveglia, quindi si alzò. Era perfettamente cosciente di quanto stava facendo ma non era certo quello che avrebbe voluto fare; provò la netta sensazione che una volontà, molto più forte della sua, dirigesse le sue azioni e i suoi passi; andò in cucina, prese il blocco che usava per annotare la spesa da fare e iniziò a fare strani disegni.

Si trattava di una mappa, anche se del tutto incomprensibile, una mappa che aveva disegnato alternando i tratti della penna a tutta una serie di suoni gutturali, accenni di armonie e sorrisi; quella particolare cantilena svegliò il marito che, recatosi in cucina, tentò in tutti i modi di richiamare alla realtà Jacqueline, ma senza alcun risultato; la donne sembrava immersa in un profondo stato di trance. Quando si riprese riconobbe il marito, gli raccontò quanto accaduto ma non riuscì a darsi una spiegazione, così come non si trattò di un caso isolato. Per ben tre volte consecutive Jacqueline Mallay si ritrovò a vivere quella particolare esperienza, tanto che il marito, convinto si trattasse di esaurimento nervoso, decise di rivolgersi a uno dei più noti specialisti di Parigi. Ciò nonostante non si riuscì a risalire a nulla e il sia pur riluttante accenno ai fenomeni medianici da parte di un medico, convinse il marito a seguire questa nuova direzione. Entrò in scena un noto archeologo e glottologo, il dottor Azoulay, il quale non riuscì a trattenere il proprio stupore quando, ascoltando la voce di Jacqueline impressa su un magnetofono, riconobbe la lingua sacra dell’antico Egitto. Erano forse i costruttori delle Piramidi quei piccoli omini grigi che la donna aveva visto all’opera?

Ben presto i giornali si impadronirono della notizia, e proprio grazie alla visibilità data dalla stampa si scoprì che il caso della signora Mallay non era affatto isolato.

Milano: 1959: soltanto un anno dopo i fatti avvenuti a Parigi.

Clotilde Traversa, così come Jacqueline Mallay, è una normalissima e tranquilla casalinga, felicemente sposata e idealmente lontana dal variegato mondo dei misteri. Così come a Parigi, anche Clotilde sta per vivere una misteriosa e inquietante esperienza. Trovandosi sul tram per fare ritorno a casa, improvvisamente avverte la sensazione di non essere più padrona della sua volontà; quando racconta il fatto al marito questi non gli da molta importanza ma si preoccupa seriamente quando la moglie inizia ad alzarsi durante la notte per scrivere poesie, complicate formule chimiche e poesie, tutte attività che le erano completamente estranee fino al giorno prima. I successivi esami medici giudicarono la donna in perfetto stato di salute fisico e mentale, nonostante questa continuasse ad affermare di come un “gruppo di scienziati” si fosse impadronito della sua mente. Per quanto l’intera storia apparisse del tutto astrusa, non appena i giornali ne vennero a conoscenza e la pubblicarono, arrivarono le prime, inaspettate, conferme; la signora Clotilde non era la sola a vivere questi particolari fenomeni, così come non era la sola ad essere convinta dell’esistenza di un gruppo di misteriosi scienziati, dominatori invisibili della mente. Nelle sue stesse condizioni si trovava anche il dottor Michele Cataldi, un professionista romano, colto dalla netta sensazione di essere “comandato a distanza” mentre si trovava in Germania per un viaggio di affari. Stesso problema per la signora Renata Amateis, a suo dire vittima di analoghe intrusioni mentali, che scrisse una lettera di conforto a Clotilde Traversa.

Ultimo in ordine di tempo il ragionier Antonio Danieli, per cinque anni sottoposto a continue vessazioni mentali, stanco di questa situazione fino al punto di scrivere una lettera di denuncia al Ministro degli Interni dell’epoca e al Procuratore della Repubblica di Treviso. Tutte queste persone, e molte altre che non resero mai pubblica la loro storia, non avevano alcun rapporto che le unisse, non si conoscevano, abitavano in luoghi geograficamente lontani e conducevano una vita normale e tranquilla, non erano infine in alcun modo vicini ad ambienti ufologici o dediti a pratiche occulte. Cosa accadde realmente in quei due anni? Quanti, ancora oggi, vivono in una simile situazione?

Quesiti inquietanti per risposte che, probabilmente, potrebbero non essere affatto piacevoli.

La mummia della discordia

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Il web è ormai saturo di commenti, analisi, deduzioni e accuse che hanno come unico soggetto le diapositive esibite da Jaime Maussan a Città del Messico; inutile mettere altra carne al fuoco, aizzare gli animi su un fatto che si è ormai rivelato già catastrofico per l’Ufologia, ma le ultime dichiarazioni rilasciate a Maurizio Baiata meritano comunque un breve commento. Ancor prima che si delineasse lo scenario causato da questa triste vicenda non erano poche le voci che gridavano alla prudenza, sarebbe forse bastato un pizzico di logica, soprattutto da parte degli organizzatori, per evitare quanto accaduto in seguito, una logica che continua ancora a mancare leggendo le poche righe dettate da Maussan in sua discolpa. L’ufologo è stato vittima di un raggiro? Qualunque organizzatore, dopo aver visionato il materiale in questione, avrebbe dato forfait rifiutandosi di divulgarlo, ma ciò non è accaduto, e credo (spero) che anche Maussan, come buona norma suggerisce, abbia preventivamente visionato il materiale in questione. Manifesta inesperienza? Mancanza di ragionamento logico? Puro interesse? Questo non lo sapremo mai, rimane il fatto che osservando la famosa diapositiva i dubbi sorgono spontanei anche in chi non ha alcuna esperienza nel campo, e con i dubbi sorgono anche tante domande, logiche e spontanee: l’esercito custodisce i resti di una creatura aliena e li tiene in bella mostra in una teca di cristallo? Ma quel corpo non sembra mummificato? Come mai c’è una sorta di targhetta di riconoscimento?

Possibile che le Intelligence di tutto il mondo lavorino costantemente ad affinare le tecniche di Cover Up e poi espongono così platealmente la prova decisiva che tutti cercano? Questi i dubbi spontaneamente esposti da chi si è imbattuto nella foto del presunto corpo alieno; Maussan però, intervistato come dicevamo all’inizio da Maurizio Baiata, continua a sostenere qualcosa di diverso, invoca la teoria del complotto, e più esattamente fa delle osservazioni alle quali vale la pena rispondere, visto anche che sono il motivo per il quale è nato questo breve articolo.

Dall’intervista, rilasciata il 12 maggio 2015, cito testualmente:

Baiata: Jaime, grazie, non mi aspettavo una risposta così repentina alla mia chiamata di stamattina. Ok, a te la scelta. Da dove partiamo?

Maussan: Dal fatto che ciò che sta accadendo è ingiusto. Tutti si basano sulla scritta che appare sulla targhetta della teca, considerandola la prova definitiva del falso, ma vorrei arrivarci fra un momento. Mi sconcerta che nessuno abbia mostrato e stia mostrando alcun interesse per i risultati delle ricerche forensi che hanno individuato in quel cadavere una serie di anomalie rilevanti che lo differenziano da un corpo umano. Come le spiegano? Come spiegano la presenza di sole sei costole? Cosa hanno di umano? Gli anatomo-patologi messicani – le loro perizie scritte saranno pubblicate a breve – hanno tutti concordato che la lunghezza delle ossa, la difformità del femore distale (prossimo al ginocchio), l’assenza dell’articolazione del polso e delle clavicole, le minimali caratteristiche facciali con denti inesistenti e naso appena percettibile, costituiscono un complesso morfologico completamente improprio per un mammifero e fanno escludere che si tratta di un essere umano.

Credit foto Tim Herbert

Credit foto Tim Herbert

Come dicevamo all’inizio, cerchiamo di usare esclusivamente la logica, quella che si sarebbe dovuta usare fin dall’inizio: che si tratti di un corpo mummificato è palese, chiunque lo riconoscerebbe come tale e basta fare una ricerca iconografica in tal senso per rendersene conto.

Si tratta in pratico di un bambino, o di un adolescente, di età indeterminata, giacente in posizione supina all’interno di una teca di vetro o cristallo; osservando più attentamente si evidenziano gli effetti della procedura di mummificazione, l’essiccazione è altrettanto palese, così come lo è il restringimento dei tessuti che ha formato dei contorni attorno al cranio e alle estremità delle ossa. Non regge neanche il fatto che non vi sia traccia di denti, questo non significa che non vi siano mai stati e tutto dipende dall’età al momento della morte. Altrettanto inutile soffermarsi sul “mistero” delle dita mancanti; vista la posizione della mano sia il pollice che l’indice potrebbero non essere visibili, se non addirittura piegati all’interno del palmo. L’argomento più suggestivo portato da Maussan riguarda le “misteriose” sei costole, ma sarà veramente così? Partiamo innanzitutto dal foto che la foto è già ingannevole in partenza, ma osservando bene si noterà che non si tratta di “mancanza di costole”, quella che in realtà manca è la demarcazione  che separa le costole, in pratica manca lo sterno. Trovandoci di fronte ad un corpo mummificato dobbiamo tenere conto degli effetti dell’essiccazione in riferimento ai tessuti e ai muscoli, ma dobbiamo anche tener presente la procedura relativa alla pratica della mummificazione.

Quando il corpo veniva preparato venivano rimossi gli organi viscerali, e nel corpo immortalato dalla diapositiva tale pratica è evidente, questa tecnica giustifica la mancanza dello sterno. Per quanto riguarda infine il famigerato cartello che Maussan continua a sostenere indecifrabile, anziché insistere sulla tesi che qualcuno ne abbia volutamente distorto il contenuto e adattato ad un complotto contro di lui, dovrebbe invece spiegare per quale motivo, nella seconda diapositiva, tali lettere erano state cancellate da un sapiente ritocco di colore bianco. Rimane soltanto da sperare che questa triste esperienza sia propedeutica per un futuro più attento e meno votato al sensazionalismo estremo.

Alieni: il primo contatto sarà con dei robot.

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L'astronomo real Martin Rees

L’astronomo real Martin Rees

L’astronomo reale Lord Martin Rees, intervenendo al Cheltenham Science Festival, ha condiviso il suo pensiero in merito agli alieni e, in particolare, su quale potrebbe essere lo scenario relativo ad un primo contatto.

Rees non si è dimostrato molto propenso ad abbracciare l’ipotesi che un segnale extraterrestre possa essere captato dalla Terra, in compenso si è dilungato sul fatto che tale ipotesi, qualora dovesse concretizzarsi, aprirebbe scenari alquanto inaspettati, se non del tutto imprevisti. Lo scenario ipotizzato da Rees prevede un probabile primo incontro,, ma non con esseri provenienti dallo spazio bensì con macchine intelligenti costruite da entità biologiche extraterrestri. Secondo l’astronomo, nel giro di pochi secoli, l’intelligenza sarà una prerogativa primaria delle macchine, un fatto che potrebbe già essersi concretizzato nel contesto di civiltà extraterrestri; le macchine infatti, sono la soluzione ideale per effettuare esplorazioni, e che anche noi portiamo avanti visto che si tratta dello stesso concetto che è alla base dell’uso che facciamo dei nostri veicoli spaziali e dei nostri rover.

Da quanto ipotizza Ress anche la razza umana sarà in grado di sviluppare mezzi con i quali avventurarsi sempre più profondamente nello spazio e di colonizzare altri mondi, questo potrebbe accadere nei prossimi decenni. “Entro la fine del secolo, ha concluso l’astronomo, ci saranno persone che vivranno lontano dalla Terra, sarà l’inizio dell’era post umana e dell’evoluzione di una nuova specie”. Lo scenario finale prevede quindi un probabile contatto con delle macchine senzienti, esponenti di una o più civiltà extraterrestri, non organiche e quindi non vincolate dalle difficoltà fisiche esistenti nello spazio o su altri pianeti.

L’ipotesi, sia pur affascinante, lascia comunque un senso di inquietudine, risveglia paure mai sopite in merito ad una intelligenza sviluppata dalle macchine vista come una minaccia per il genere umano, oltre a vanificare le aspettative di tutti coloro che sognano ancora l’atterraggio di una astronave madre e la discesa di creature aliene, magari molto simili a noi. Di contro la tecnologia sembra aver già posto le basi affinché le previsioni di Rees si avverino; la Space Adventures ha già in programma alcuni viaggi “turistici” verso la Luna, SpaceX annuncia che in un prossimo futuro sarà in grado di trasportare uomini e merci nello spazio, mentre si riprende a parlare di un possibile progetto per colonizzare Marte. Nonostante ciò, la conclusione del suo intervento, non è poi così positiva e lascia trasparire una profonda preoccupazione, ovvero il timore che computer e robot saranno presto così avanzati da creare loro stessi, in un prossimo futuro, altre macchine senza l’intervento dell’uomo.

Rees riprende quindi le preoccupazioni esternate spesso da Stephen Hawking, lasciando intravedere un futuro non certo roseo. La razza umana, per sua fortuna, è riuscita sempre a sopravvivere facendo tesoro delle esperienze, ma questo processo è sempre avvenuto a posteriori, ovvero una volta consumato l’errore e dopo averne pagato le conseguenze; la speranza è che tale tendenza non sia anche una caratteristica del nostro futuro.

Il cielo di Marte è blu?

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Il tramonto che si può ammirare in questa foto (credit foto Meteo.it) è certo annoverabile tra gli scatti più belli e intriganti, l’unico problema è che non si tratta di uno scenario immortalato sulla Terra bensì di uno scatto effettuata dal rover Curiosity su Marte.

Tramonto su Marte

Tramonto su Marte

Nel fotogramma il sole sta lentamente scendendo sotto le colline che cingono il cratere Gale; il quesito che nasce dopo essersi ripresi dallo stupore è altrettanto intrigante: il cielo di Marte è blu? La notizia ha subito scatenato centinaia di commenti, iniziando da tutti coloro che, da tempo, portano avanti l’ipotesi di una verità nascosta dalla NASA proprio in merito al Pianeta Rosso, e finendo per riaccendere tutte le discussioni ancora aperte in merito ai vari misteri che il corpo celeste ancora nasconde o che ci vengono volutamente occultati. Prima di affrontare il problema è opportuno chiarire che l’ipotesi di un ente spaziale americano che filtra i risultati delle varie scoperte non è poi così assurda, anzi, risulta del tutto plausibile con le varie tecniche che hanno caratterizzato il Cover Up fin dalla sua nascita, una pratica che non si ferma all’ipotesi Ufo in generale ma che coinvolge gran parte del nostro quotidiano relazionarci con la realtà.

Detto questo andiamo alla questione “cielo blu di Marte” e cerchiamo di capire lo scenario che ha originato questo fotografia. Iniziamo subito dicendo che esiste una notevole differenza tra ciò che “vede” l’apparecchiatura di Curiosity e quello che percepisce l’occhio umano; si tratta di una questione di frequenza e di sensibilità più o meno sviluppata rispetto a queste ultime. La spiegazione data dalla comunità scientifica si basa sulla polvere presente nell’atmosfera marziana, un pulviscolo di ridottissime dimensioni, tali da permettere al blu di penetrare in maniera maggiore rispetto alle altre lunghezze d’onda.

Tale teoria viene supportata dal fatto che il fenomeno si manifesta quando la luce del sole, molto basso sull’orizzonte, è costretta a compiere un percorso più lungo nell’atmosfera, questo farebbe in modo che le altre frequenze della luce vengano assorbite con maggior facilità. In realtà il cielo su Marte non è di color azzurro, la sua variazione va dal rosa pallido all’arancione e si può parlare di “cielo azzurro” soltanto al tramonto, ovvero in maniera inversa rispetto a quanto accade nel nostro pianeta. Come dicevamo all’inizio dovrebbe esistere una linea di confine neutrale che divida le teorie di complotto dalla ricerca scientifica senza preconcetti; all’interno di questo spazio troveremmo di certo una soluzione in grado di evidenziare le verità contenute in ognuna delle opposte teorie.

Quali sarebbero allora i veri colori di Marte?

Apparirà strano, ma anche sulla Terra non è semplice capire quale sia il colore del cielo; quella parte del nostro cervello che interpreta i colori e trasmette le relative informazioni al nostro apparato visivo ha la capacità di resettarsi in base alla luce ambientale.

In tal modo, passando da un ambiente caratterizzato da luce bianca-neutra ad un altro che abbia una luce arancione tutti gli oggetti che osserveremo inizialmente appariranno di colore arancione, almeno fino a quando l’occhio si sarà tarato ridistribuendo lo spettro dei colori.

L’apparente dominanza di arancione con la quale si presenta Marte ai nostri occhi non significa che, qualora ci trovassimo sulla sua superficie, tutto ci appaia dello stesso colore. Questo misterioso corpo celeste è composto prevalentemente da rocce, montagne e crateri, il tutto illuminato dal sole, cioè dalla stessa luce che illumina la Terra, anche se in quantità minore per via della maggior distanza orbitale. Questa illuminazione non è omogenea, varia a causa dell’eccentricità dell’orbita, causando giornate più luminose rispetto ad altre (osservazione in Afelio e osservazione in Perielio).

Un esempio pratico: pianeta marte, periodo estivo, ore 14 pomeridiane, normali condizioni meteo: il cielo avrà una predominanza di blu con la presenza, a quota radente, di particolato color rosato; in condizioni meteo differenti  vedremmo il cielo tendere verso sfumature bianco/celeste o bianco/rosato. Come sempre la verità potrebbe stare proprio in quella ipotetica linea di separazione alla quale si accennava prima, e più esattamente in un fenomeno ottico noto come “Rayleigh Scattering”. In parole più semplici: la luce di colore bianco proveniente dal sole è in realtà la sovrapposizione di onde elettromagnetiche appartenenti a lunghezze d’onda diverse; quando un raggio di sole raggiunge la Terra interagisce con la sua atmosfera che, come sappiamo, è composta da vari elementi. La luce rossa, che possiede una lunghezza d’onda maggiore, scavalca le particelle più piccole interagendo in maniera molto debole con l’atmosfera, mentre la luce blu, con una lunghezza d’onda inferiore, viene riflessa in tutte le direzioni; questa differenza di diffusione, dipendente dalle lunghezze d’onda, prende il nome di Rayleigh Scattering, in ricordo del fisico inglese che la descrisse per primo nell’Ottocento.

Quanto appena descritto produce i seguenti effetti: sulla Luna il cielo è nero e il sole bianco, sulla Terra il sole, i cui raggi rimuovono la componente blu, è giallo. In conclusione, il colore del cielo di Marte è direttamente collegato alle condizioni atmosferiche; diventa blu in assenza di bufere, anche se di tonalità molto più scura per via della poca atmosfera, mentre appare rosso (vedi Viking 1977 e Pathfinder 1997) quando le frequenti bufere alzano quella polvere rossastra ricca di ossido di ferro che è valsa al pianeta l’appellativo di Pianeta Rosso.

Permane la domanda se Marte in passato sia stato abitato, insieme a tutti gli altri misteri che lo rendono da sempre così affascinante, ma queste sono altre storie, tutte in attesa di una risposta.

The Blue Room Project

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Molto spesso il colore blu viene associato al volo e, in particolare, viene usato come identificativo rispetto a tutto ciò che orbita intorno alla tecnologia aerospaziale e all’aviazione militare.

Si tratta del colore dell’Air Force, che ricorda il cielo e i suoi infiniti misteri; non a caso quindi, dato che uno degli enigmi più impenetrabili è quello degli Ufo, il progetto sviluppato nella base di Wright Patterson venne battezzato “Blue Room Project”.

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Su questo identificativo sono sorte decine e decine di ipotesi, tutte legate tra loro da un unico filo conduttore: il progetto Blue Room riguarda artefatti extraterrestri in mano al governo, sarebbe quindi la prova definitiva del fatto che la verità è stata per anni manipolata e abilmente nascosta ai nostri occhi.

Una affermazione del genere, che rispecchia in fondo quel ragionevole dubbio ormai presente nella maggior parte di coloro che, direttamente o indirettamente, seguono la questione Ufo, potrebbe acquistare maggior valore qualora si riuscisse a rispondere con assoluta certezza ad un semplice quesito: esiste veramente il Blue Room Project?

I dati in nostro possesso, provenienti da indagini effettuate da ricercatori indipendenti, riescono a fornirci soltanto due informazioni, due indizi che diventano il punto di partenza per questa indagine: il progetto Blue Room nacque intorno agli Anni ’50 e fu sicuramente operativo nel periodo tra il 1955 e il 1965; esisterebbe uno spezzone di pellicola in 35 mm che documenterebbe quanto classificato all’interno del progetto.

Trovandoci costretti a confrontarci con quelle che, al momento, appaiono come pure e semplici ipotesi, non possiamo fare altro che scavare più a fondo in cerca di notizie più consistenti.

Nel gergo in uso presso l’Intelligence, una Blue Room identifica una porzione di spazio posta all’interno di un edificio di massima sicurezza, uno spazio progettato e attrezzato per contenere elementi classificati ad alta sensibilità o di elevato interesse tecnologico.

A questo punto è lecito supporre che, se Wright Patterson è effettivamente collegata con la questione Ufo, una Blue Room al suo interno non può essere di certo casuale; anche in questo modo, comunque, rimaniamo ancora legati al campo delle ipotesi, proviamo quindi a spostare la nostra attenzione su un altro fronte, quello della documentazione.

Una delle prime richieste inoltrate al FOIA (Freedom of Information Act), venne fatta il 30 dicembre del 1980 dal ricercatore William Moore; il 7 gennaio del 1981, Moore ricevette una laconica risposta da parte della U.S. Air Force attraverso la quale veniva informato che non esiste alcun file riguardante un Progetto Blue Room, così come non esiste materialmente nessuna Blue Room in nessuna delle basi dislocate nel territorio americano.

Nonostante ciò bisogna registrare un evento che sembra smentire queste due affermazioni: il fatto in questione riguarda il senatore ed ex generale Barry Goldwater, il quale, durante una intervista, riferì di un suo colloquio avvenuto nella prima metà degli Anni ’60, con il generale Curtis LeMay. Durante quella conversazione il senatore disse di essere a conoscenza di una stanza nella base di Wright Patterson nella quale venivano custodite attrezzature e macchinari posti sotto il massimo codice di segretezza.

Si potrebbe ovviamente obiettare che non necessariamente il senso di questa frase debba essere riferito a materiali di origine aliena, potrebbe anche trattarsi di tecnologia terrestre in fase di sperimentazione, questo però non chiarisce per quale motivo, quando Goldwater chiese di accedere alla sala, gli venne bruscamente negato il permesso.

Riconoscendo che anche questo dubbio non scioglie completamente le riserve sulla questione, non ci resta che passare ad un successivo documento, la lettera di un privato cittadino, Brian Parks, indirizzata al FOIA; proprio a questa lettera i militari risposero in maniera del tutto sorprendente, contraddicendo quanto scritto in risposta a William Moore.

“…esiste una sala chiamata Blue Room ma tutti i file e i documenti che la riguardano, siano essi fotografici che contributi video, sono stati bruciati”!

L’Air Force ammette quindi l’esistenza di una Blue Room, un progetto in funzione già da anni che per qualche misterioso motivo è stato soppresso, arrivando addirittura a distruggere completamente ogni tipo di documentazione.

La lettera riportata in foto è del tutto chiara, riporta un numero di progetto e un numero di identificazione USAF entrambi relativi alla Blue Room; i fraintendimenti, a questo punto, sono ridotti al minimo: i filmati girati in 35 mm sono stati distrutti, insieme a tutto il resto del materiale, il 9 settembre del 1965, stranamente dopo qualche anno dall’interesse manifestato da Goldwater e dal rifiuto di fargli visitare il progetto.

Il Blue Room Project quindi, come la stessa lettera conferma, venne avviato nel 1955 e andò avanti per diversi anni; i relativi filmati vennero distrutti (?) dalle Forze Armate nel 1965; il colonnello Anderson, che firma la lettera, fornisce anche un numero di protocollo e un identificativo.

Potremmo a questo punto ragionevolmente affermare che un Blue Room Project è effettivamente esistito, anche se non possiamo con altrettanta certezza identificare di cosa il progetto stesso si occupasse.

L’indagine sarebbe quindi chiusa, ma in realtà non è così!

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La questione si complica

Proprio quando alcuni dubbi stavano per sciogliersi la questione si complica; d’altra parte chiunque abbia un minimo di esperienza rispetto a questo tipo di indagini non dovrebbe certo stupirsi.

Nel maggio del 2012 Anthony Bragaglia spedisce una mail al centro richieste del FOIA, chiedendo maggiori delucidazioni rispetto al progetto Blue Book.

Dopo poco tempo una mail di risposta lo avvisa del fatto che è stato assegnato un numero di protocollo alla sua richiesta; passano ancora pochi giorni e una nuova mail, firmata Lynn Kane Centro Analisi FOIA, lo avvisa che la sua richiesta è stata girata al NASIC (National Air and Space Intelligence Center), il quale si ripromette di rispondere al più presto essendo l’ente al quale fa riferimento il Blue Room Project.

In pratica, nella risposta, Lynne Kane, ammette nuovamente che l’Air Force è a conoscenza del Blue Room Project, che questo è stato ospitato presso la base di Wright Patterson, e che adesso è parte del NASIC che ne è responsabile.

Questa risposta riapre l’intera questione e aggiunge una nuova, curiosa, coincidenza al discorso rimasto in sospeso che riguardava la vera finalità della Blue Room.

Pur confermando ancora una volta l’esistenza del Progetto non si accenna a nessuna distruzione o chiusura dello stesso, mentre il riferimento al NASIC risulta particolarmente curioso, visto che proprio in un documento rilasciato da questa organizzazione, documento che ne definisce la mission, si legge testualmente: “…raccogliere e analizzare dati di intelligence su attuali e future minacce provenienti dall’aria e dallo spazio”.

La tentazione di accostare questo estratto all’idea diffusa che la Blue Room contenga reperti alieni è di certo molto forte, ma andiamo avanti con il nostro racconto.

Il 17 maggio 2012, ad appena tre giorni dall’ultima mail, Bragaglia riceve una lettera che fa cadere nuovamente un velo misterioso sull’intero caso.

Department of the Air Force

National Air & Space Intelligence Center (AF ISR Agency)

Wright-Patterson AFB Ohio

 17 maggio 2012

NASIC / SCOK (FOIA)

4180 Watson Way

Wright-Patterson AFB OH 45433-5648

 Mr. Anthony Bragalia

(Indirizzo)

 Gentile Signor Bragalia:

 Questa lettera viene scritta in merito alla sua richiesta, datata 26 aprile 2012 e indirizzata al Freedom of Information Act (FOIA), in merito ai record relativi al “Blue Room”.Alla sua richiesta è stato assegnato il numero di protocollo FOIA 2012-03668-F.

E’ stata condotta una ricerca in merito ai record da lei richiesti, ma senza nessun risultato.

Abbiamo cercato più volte in passato per quanto riguarda i record associati a “Blue Room” ma senza alcun esito. Qualora interpretasse questa risposta come una negazione di informazioni potrà appellarsi al segretario dell’Air Force entro 60 giorni dalla data della presente lettera. In questo caso dovrà allegare al suo appello i motivi per il riesame e una copia della presente lettera. L’appello sarà trasmesso al segretario dell’Air Force, Thru: NASIC / SCK (FOIA), 4180 Way Watson, Wright-Patterson AFB OH 4533-5648.

 Cordiali saluti,

Gery D. Huelsman

Libertà NASIC Manager Information Act

Se non esiste alcun record, a cosa si riferiva il colonnello Anderson?

Questa stessa domanda venne rivolta da Bragaglia il 5 giugno 2012 proprio al NASIC, insieme a un altro dubbio: come avrebbe fatto il colonnello Anderson ad ammettere che la pellicola della Blue Room era stata distrutta se di questa misteriosa camera non esiste alcun record? Quali fonti aveva consultato? Se non esiste alcun record da dove provengono i numeri di identificazione riportati nella risposta?

In merito alle nuove richiesta si attende ancora una risposta; sembra quasi di assistere ad un remake della vicenda che ebbe come protagonista la misteriosa IPU (Interplanetary Phenomenon Unit), sulla quale ancora si attendono risposte, ma questa è un’altra storia, l’ennesimo racconto di verità nascoste che purtroppo sembra ormai diventato così comune quando si cerca di capire cosa realmente si muove dietro gli spessi drappi che nascondono il potere ai nostri occhi.

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UfoSigns ritorna in un momento particolarmente delicato per la ricerca ufologica e per le ricerche relative alle tematiche cosiddette “di frontiera”.

Il nuovo blog sarà in costante work in progress, una condizione che rispecchia in fondo quella che dovrebbe essere la filosofia e lo spirito che sottintendono a questo tipo di ricerche; un continuo aggiornamento, un perenne confronto dal quale non si smette mai di imparare e crescere. Le notizie riportate abbracceranno il tema Ufo pur muovendosi attraverso scenari diversi ma compatibili; questo a dimostrazione che l’ufologia è una materia multidisciplinare e di portata globale, non certo il passatempo preferito di persone che scrutano perennemente il cielo nella spasmodica ricerca di qualcosa di anomalo da immortalare. Questa immagine, così tanto cara ai detrattori, purtroppo viene a volte supportata dalla considerevole mole di notizie, foto e filmati postati in rete senza alcuna preventiva analisi, al solo scopo di raccogliere consensi virtuali.

Questa non è Ufologia, queste non sono prove, è soltanto un gioco al massacro nel quale, volontariamente o meno, si offre al fianco a più che giustificate critiche.

Partendo da questi presupposti UfoSigns si sforzerà di usare gli opportuni parametri di criticità, tentando di indirizzare il dibattito verso altri aspetti della materia, ritenendo che il tempo delle foto e dei filmati debba ormai essere superato, offrendo spazio a diverse considerazioni, a concetti e visioni globali che implicano scenari ben diversi, molto più vicini al nostro quotidiano e alla realtà che ci circonda.